IL SANTO ASSENTE

capitolo 1

                                                                          “Zeit” - Tangerine Dream (1972)

La prima cosa che notò fu il grammofono. Era un modello Dulcephone di fabbricazione inglese, con la base in legno di rovere massiccio e la tromba in lamiera verniciata di verde. Qualcuno l’aveva rimosso dalla collezione privata del signor Thomas e l’aveva appoggiato sull’elegante tavolo dell’ingresso. E per farlo non aveva esitato a mandare in frantumi la vicina vetrina che custodiva gli altri 27 grammofoni esposti l’uno accanto all’altro.
«Signor Thomas?»
Silenzio.
Geraldina rimase incerta sulla porta, in attesa che il padrone di casa spuntasse da un momento all’altro e la salutasse cordialmente, come era solito fare.
Guardò le lancette dell’orologio appeso alla parete di fronte, poi diede un’occhiata al suo orologetto che teneva allacciato al polso. Uno dei due orologi sbagliava di quattro minuti, ma cosa importava? Erano all’incirca le nove e come in tutti i giorni feriali, la signora Geraldina Garcia entrava nell’appartamento numero 507 del Samarkand e, dopo aver salutato il signor Thomas, percorreva il corridoio che portava dritto allo sgabuzzino dove si toglieva il cappotto e tirava fuori l’aspirapolvere.
Chiamò un’altra volta il padrone di casa alzando un po’ di più la voce. Nessuna risposta.
Si sporse nell’ingresso e guardò le pareti pesco chiaro. Il pesco era sempre stato uno dei suoi colori preferiti, le ricordava la Primavera e le sembrava di sentire l’odore delle pesche appena colte. Ma quel giorno sentiva solo odore di stanze chiuse e di polvere.
Sfregò con cura le scarpe sullo zerbino ed entrò a piccoli passi nella stanza, attenta a non calpestare la miriade di frammenti del vetro della teca sparsi sul pavimento.
Virgen Santísima!
Si avvicinò alla vetrina rotta, abbassandosi ad esaminare i frammenti di vetro e poi osservò ancora una volta il grammofono. Per un brevissimo momento le balenò alla mente il vecchio grammofono di suo zio Alberto di La Plata col quale le faceva ascoltare vecchi classici del tango e il cui suono le ricordava una pentola di fagioli in ebollizione.
«Signor Thomas?»
Geraldina si avvicinò alla porta che separava l’ingresso dal resto della casa. Dopo qualche attimo di esitazione, la aprì accedendo nel corridoio che conduceva alla stanza da letto.
Camminando quasi completamente al buio, sfiorò il mobiletto indiano sul quale giacevano le chiavi di casa. Si fermò e trattenne il respiro, restando in ascolto di eventuali rumori provenienti dalla camera da letto che si trovava poco più di un paio di metri avanti.
Non udì volare nemmeno una mosca.
La tensione nell’aria era palpabile quasi quanto il vetro della teca in frantumi sul pavimento all’ingresso e alla sorpresa del primo momento, cominciava a sovrapporsi una strana sensazione di paura e di inquietudine.
Cercò di farsi coraggio e di non perdere altro tempo e iniziare subito col suo lavoro. Non intendeva tornare a casa in ritardo, sarebbe stato davvero un peccato se suo marito ritornato dal lavoro avesse trovato un tavolo vuoto.
Giunse davanti alla porta della camera da letto, era chiusa e non si udivano rumori.
«Signor Thomas. Sono Geraldina.» Disse bussando delicatamente con le nocche, l’orecchio appoggiato sulla porta.
Nessuna risposta.
Rimase per un minuto buono con la maniglia stretta nella mano con una strana sensazione, un senso d’ansia che le colmava lo stomaco. Si guardò intorno, tutto era come al solito, tutto era tranquillo, eppure... eppure qualcosa le suggeriva di non aprire, come se si aspettasse che qualcuno le saltasse improvvisamente addosso.
Mollò la maniglia e restò immobile fissando la porta chiusa di fronte a sé.
“Che mi prende?” si chiese, mentre il cuore le batteva sempre più forte.
Trascorsero alcuni interminabili secondi prima che Geraldina riuscisse a trovare la forza di uscire da quella situazione ridicola. Era stata innumerevoli volte in quella stanza, ma quella mattina le sembrava di entrarci per la prima volta.
«Signor Thomas.» chiamò ad alta voce, afferrando di nuovo la maniglia.
Deglutì, sperando di allentare la tensione che aveva in gola e poi aprì la porta.
Un buio pesto avvolgeva il silenzio della camera da letto.
Con la mano tesa e tremante cercò l’interruttore della luce, quello stupido interruttore sulla parete sinistra. “È qui!” si diceva, il respiro affannoso, il cuore che le batteva forte.
Click!
Un bagliore pigro piovve sul corpo inerme. Era a faccia in giù sul cuscino, le braccia spalancate e le gambe divaricate, proprio come un macabro uomo vitruviano. Sulle lenzuola candide, spiccava inesorabile una chiazza di sangue che si allargava a raggiera attorno alla testa.
Geraldina sgranò gli occhi terrorizzata, si portò le mani sulla bocca come a reprimere un grido che le sgorgava dall’anima. Cercò di muoversi ma le gambe erano come paralizzate, insensibili, inservibili.
Vacillò, riuscì appena a fare due passi incerti ma finì con l’urtare la libreria da cui caddero alcuni oggetti che si ruppero al contatto col suolo.
In preda all’orrore e alla confusione riuscì comunque a guardare il corpo e a notare tra le lenzuola i capelli di un biondo chiarissimo, con riflessi argentei.
No, non sono quelli del signor Thomas.
Uscì di corsa dalla stanza barcollando e quando raggiunse la porta cadde nel corridoio. Il muro le colpì la spalla sinistra, lasciandole un livido. Facendo appello a tutta la forza di volontà, Geraldina si obbligò a rimettersi in piedi e cominciò ad allontanarsi dal corridoio con passo malfermo.

Il lacerante ululato della sirena si trasformò in un debole grugnito quando l’ambulanza giunse sul posto.
Due infermieri saltarono giù e con fare risoluto spalancarono il portellone posteriore tirando fuori una barella. «Da questa parte!» urlò qualcuno.
Proprio in quell’istante una macchina scura si affiancò a loro. Quando la portiera si aprì, la pesante scarpa del capitano Winston McIntosh pestò la pozza vischiosa, facendo schizzare il fango tutt’intorno.
Dopo un’imprecazione tra i denti, McIntosh si infilò il sigaro in bocca e controllò che gli schizzi non avessero sporcato il suo costoso vestito.
«La prossima volta cerca di parcheggiare sulla terra ferma» disse con tono glaciale a Janis Atkinson, neo detective del Criminal Investigation Department.
McIntosh bestemmiò in silenzio e scese dall’auto guardandosi attorno.
Oltre all’ambulanza scorse una macchina della polizia parcheggiata sul ciglio della strada e tre agenti in piedi davanti alla signora Geraldina Garcia seduta sul marciapiede.
Uno dei poliziotti si staccò dai colleghi e gli si avvicinò rapidamente.
«Signore, abbiamo appena finito di interrogare la donna delle pulizie. È stata lei a chiamarci.»
McIntosh, si tolse il sigaro dalla bocca sbuffando del fumo grigio sul viso del suo sottoposto, mentre con lo sguardo fissava la donna tremante.
«Mi è stato riferito che il cadavere non è quello di Frank Thomas.»
«Corretto, signore. Secondo la patente, la vittima si chiamava John Curtis. È stato freddato con un colpo di pistola sparato qui, proprio nell’orecchio destro.»
«È stata ritrovata l’arma del delitto?»
«No. Probabilmente si tratta di una calibro nove.»
L’agente Copeland sembrava impaziente di aggiungere altre informazioni, ma il capitano si stava già allontanando da lui diretto verso il marciapiede.
Quando raggiunse la signora Garcia, le si piazzò di fronte guardandola dritta negli occhi. Il capitano McIntosh aveva la sconcertante abitudine di fissare per diversi secondi le persone senza parlare, semplicemente puntando loro addosso uno sguardo accusatore. Così fece anche con Geraldina e quando decise che poteva bastare, si abbassò sulle ginocchia sempre con lo sguardo fisso negli occhi.
«Signora Garcia, sono il capitano McIntosh del Criminal Investigation Department. Può ripetere anche a me quello che è successo?» il tono viaggiava in bilico tra l’ordine perentorio e la richiesta di un favore.
La donna, smarrita e tremante, alzò lo sguardo tornando alla realtà da chissà quale mondo alternativo. Visibilmente sotto shock, lo guardò con gli occhi stralunati, dando l’impressione che si fosse dimenticata della domanda o che non l’avesse nemmeno sentita.
«Quando… Quando ho aperto la porta della camera da letto ho visto il corpo, era a pancia in giù… Era vestito, ma ho subito capito che era morto… Ho visto il sangue. In un primo momento ho pensato che si trattasse del signor Thomas, ma quando ho visto i capelli biondi…»
Il capitano socchiuse leggermente gli occhi, fissando quelli lucidi di lacrime della donna.
«Lei conosceva il ragazzo, signora Garcia? L’aveva mai visto in casa prima d’ora?»
«No.» Rispose scuotendo la testa «Il signor Thomas invita sempre gente nei fine settimana, ma non conosco nessuno dei suoi ospiti. Il lunedì mattina trovo sempre tutto in disordine, soprattutto nel soggiorno… e in camera.»
«Capisco» annuì McIntosh.
«Mi scusi» una voce maschile risuonò all’improvviso alle sue spalle.
Il capitano McIntosh si girò di scatto trovandosi faccia a faccia con uno degli infermieri.
«Adesso dobbiamo medicare la signora.»
McIntosh fece una tirata al suo sigaro guardando impassibile l’infermiere per un lungo istante, poi annuì leggermente con la testa.
L’infermiere e il suo collega aiutarono la signora Garcia a distendersi sulla barella che poi spinsero con cautela verso l’ambulanza.
McIntosh li seguì con passo tardo e misurato fino a quando i due sanitari si fermarono di fronte al portellone posteriore dell’ambulanza. Approfittò della breve sosta per togliersi un ultimo dubbio: «Signora Garcia, un’ultima domanda.» Le disse togliendosi il sigaro dalla bocca.
«Ha notato qualcosa di strano, di inconsueto nell’appartamento?»
Stesa sulla barella e chiaramente ancora sotto shock, Geraldina scosse la testa.
McIntosh assentì con un cenno della testa, mentre i due infermieri afferrarono la barella e la sollevarono. Erano intenti a caricarla sull’ambulanza quando, con uno scatto isterico, Geraldina afferrò con forza il polso del capitano.
«Il grammofono!» disse con gli occhi sbarrati.
«Qualcuno lo ha appoggiato sul tavolino all’ingresso.»
McIntosh aggrottò la fronte, mentre i due infermieri issavano la barella all’interno dell’ambulanza e, senza troppi complimenti, chiudevano il portellone in faccia a lui e al suo sigaro.
L’ambulanza ripartì a sirene spiegate sotto lo sguardo cupo del capitano, il quale, dopo aver buttato il sigaro in una delle tante pozzanghere che decoravano Lansdowne Crescent, si diresse verso l’elegante edificio del Samarkand.
«Agente Copeland!» chiamò con voce tonante «Io e la detective Atkinson andiamo sulla scena del crimine. Tu intanto vedi di scoprire che genere di sistema di allarme dispone l’edificio e se ci sono delle registrazioni.»
«Agli ordini, signore.»
«Facciamo un giro per la casa.» disse rivolgendosi a Janis con un tono più pacato «Mi raccomando non toccare niente.»

L’appartamento e l’ingresso brulicavano di tecnici della polizia, di agenti in borghese e in divisa. Le prime squadre avevano cominciato ad arrivare prima ancora che McIntosh potesse dare istruzioni a Janis sul da farsi.
«Quel grammofono.» disse McIntosh calpestando senza scomposi i pezzi di vetro sparsi sul pavimento «L’assassino ha infranto la vetrina per portarselo via. Poi, però, per qualche motivo l’ha lasciato lì.»
Provando ad evitare senza successo i pezzi di vetro, Janis lanciò una rapida occhiata al grammofono. Non aveva bisogno di essere un’esperta per indovinare che un oggetto simile doveva valere una fortuna, roba da collezionisti.
I due attraversarono rapidamente il corridoio ed entrarono nella camera da letto, dove alcuni agenti della scientifica erano impegnati a passare al setaccio ogni millimetro e a rilevare impronte di vario tipo. C’era anche il medico legale chino sul corpo della vittima.
«Doctor Robert.» lo salutò McIntosh «Hai qualcosa per me?»
Il cranio pelato del dottor Robert Freymann si alzò a fatica e, con tono piatto, disse: «Il ragazzo è stato ucciso più o meno otto ore fa: il proiettile sparato proprio nell’orecchio gli ha distrutto il cervello».
«Hai trovato segni di colluttazione?»
«No. Saprò dirti di più dopo l’autopsia.» gli rispose sfilandosi i guanti di lattice.
Mentre il medico legale usciva dalla scena del crimine, Janis si guardava attorno per esaminare la stanza, catalogando mentalmente ogni singolo dettaglio.
L’arredamento era molto curato ed elegante con mobili in legno chiaro e tessuti dai colori freschi e gradevoli. Le pareti erano coperte da quadri originali di artisti che non conosceva e che sicuramente a McIntosh non interessava conoscere. Per lui erano tutte stronzate irrilevanti.
«Colpito a bruciapelo.» osservò McIntosh, esaminando il foro del proiettile all’altezza dell’orecchio destro. «Come in un’esecuzione.» Aggiunse cupamente.
«Pensa che c’entri Frank Thomas?» gli chiese Janis con lo sguardo fisso sui capelli biondo platino del cadavere,  zuppi di sangue, appiccicosi e schiacciati.
McIntosh non rispose, era proteso sul cadavere e tastava sulle tasche dei pantaloni come a cercarvi un’arma.
«Niente cellulare… Che strano.» osservò, parlando più a se stesso che a Janis.
Si mise dritto, trovandosi faccia a faccia con Janis.
Winston McIntosh aveva più l’aspetto di un vecchio pugile che di un capitano del Criminal Investigation Department: mascella pesante, collo taurino, capelli corti e dritti sulla testa simili alle setole di un cinghiale. A parte il suo sguardo perennemente incazzato, l’insieme del suo aspetto e del suo linguaggio corporeo sembravano studiati apposta per incutere timore al prossimo.
«Avete preso voi il cellulare della vittima?» chiese poi a gran voce ai poliziotti presenti nella stanza. Per un istante Janis ebbe l’insensata impressione che lo stesse chiedendo a lei. 
Due agenti che erano dietro di lei distolsero per un momento lo sguardo dal loro compito, proferendo un “no” all’unisono, per poi ritornare alla loro attività.
Il capitano annuì e si fermò pensoso davanti alla finestra che dava su Lansdowne Crescent, osservando con sguardo vuoto le macchine passare; poi si voltò improvvisamente verso Janis: «Okay, io me ne torno in centrale. Tu interroga il portiere, i vicini, i negozianti del quartiere, interroga chi vuoi. Ma portami qualche informazione importante. Sono tre settimane che mi stai appiccicata ed è ora che cominci a cavartela da sola.»
McIntosh uscì dall’appartamento prima che Janis potesse far altro se non arrossire e farfugliare qualcosa. Sola, col suo senso di frustrazione, osservò il suo superiore dirigersi a passo deciso verso l’auto parcheggiata dall’altra parte della strada.
Non era un uomo cattivo Winston McIntosh, ma non era neanche un uomo particolarmente incline alla compassione. Era solo il suo capo.

Quando più tardi Janis giunse nella sede del Criminal Investigation Department, i membri della squadra erano già riuniti per discutere del caso. Il capitano McIntosh era in piedi di fronte ad una lavagna interattiva multimediale sulla quale vi era una cartina interattiva di Londra, la foto di Frank Thomas e, accanto ad essa, le foto segnaletiche di altri due individui. Vedendola arrivare, McIntosh fece una pausa per permetterle di accomodarsi, mentre gli altri della squadra si limitarono a lanciarle un’occhiata per poi distogliere l’attenzione.
«Dicevo, abbiamo ricostruito in modo più completo gli eventi di sabato sera. Sappiamo che Frank Thomas ha passato la serata al Marquee Club assieme ad un amico, John Curtis» McIntosh indicò la seconda foto affianco a quella di Thomas.
«Anche lui omosessuale.»
Il commento fu accolto da un borbottio collettivo.
Frank Thomas era il fondatore e proprietario della Quadrophenia Records, una delle etichette discografiche più importanti del mondo. Partito da un sottoscala dal quale, alla fine degli anni settanta, vendeva dischi per corrispondenza, Thomas trasformò presto la sua attività in studio di registrazione, raggiungendo un enorme quanto inaspettato successo. Da allora la Quadrophenia Records crebbe a ritmi vertiginosi, fino ad affermarsi come una delle principali etichette indipendenti del Regno Unito. Frank Thomas si fece una certa reputazione scoprendo e lanciando numerosi gruppi rock e col passare degli anni la sua fama crebbe sempre di più fino a diventare una leggenda nel campo della musica.
Divenne anche noto per le sue tendenze omosessuali e negli anni Novanta fu condannato a 15 mesi di carcere per aver ammanettato un escort norvegese e averlo percosso con una catena in un delirio indotto dagli stupefacenti.
«Si tratta della vittima ritrovata stamattina dalla addetta alle pulizie.» proseguì il capitano McIntosh «Non abbiamo ancora l’esame medico dettagliato del cadavere; tuttavia, non paiono esserci dubbi sul fatto che a procurare la morte del giovane sia stato un colpo di pistola sparato a bruciapelo all’altezza dell’orecchio destro.»
Janis studiò il volto nella foto. John Curtis appariva giovane e sorridente e sembrava che stesse guardando qualcuno vicino all’obiettivo. Aveva l’aria apparentemente divertita come se qualcuno gli avesse fatto uno scherzo un attimo prima dello scatto.
«Esaminando i tabulati del cellulare di Frank Thomas, alle ore 23:36 riceve un messaggio da un suo amico, Haroldo Rodriguez, un transessuale noto alle forze dell’ordine per spaccio e piccoli furti.» McIntosh indicò la seconda immagine, una foto segnaletica ritraente un uomo con lo sguardo truce, un cipiglio sprezzante e i capelli impomatati. Sul petto aveva un cartello della polizia con il numero di matricola 23750.
«Nel messaggio Rodriguez gli propone di incontrarsi per passare insieme la serata. Si danno così appuntamento in Leicester Square, poco distante dal club.» indicò i punti sulla cartina davanti a lui.
«Thomas e Curtis lo raggiungono presumibilmente intorno all’una e poi i tre si dirigono a casa di Thomas, in Lansdowne Crescent.»
McIntosh si girò di fronte alla platea.
«Questo è il luogo del delitto. Abbiamo la registrazione della camera di sicurezza posizionata nel corridoio del Samarkand. Nel video si vedono due uomini col volto coperto da maschere di gomma fare irruzione e dirigersi rapidamente verso l’appartamento di Frank Thomas.»
McIntosh armeggiò col telecomando e pochi istanti dopo sulla lavagna multimediale apparve l’immagine di un corridoio con un portone sullo sfondo; il portone si spalancava improvvisamente e due individui con delle maschere di gomma sul viso, una di Elvis Presley e l’altra di Michael Jackson, entravano rapidamente per poi scomparire passando sotto l’inquadratura.
«L’orario della ripresa è delle 2:54. Poco dopo, alle 3:31, la stessa videocamera ha ripreso i due rapitori che costringono Thomas e Rodriguez a dirigersi verso il portone d’uscita. Nell’appartamento lasciano solo il cadavere di John Curtis»
McIntosh fece scorrere le immagini che stavolta ritraevano i due rapitori che con spintoni e calci costringevano i due a camminare con le mani dietro la nuca verso il portone di uscita del lussuoso edificio.  
«Dunque siamo dinanzi ad un caso di omicidio e di rapimento» disse lanciando una rapida occhiata ai presenti.
«Sicuramente i rapitori puntano su Frank Thomas, visto che è uno degli uomini più ricchi della Gran Bretagna. Una delle difficoltà, però, è che ancora non ci sono state richieste di riscatto».
«È stato portato via qualcosa dall’appartamento?» domandò un detective della squadra seduto accanto a Janis.
«È ancora presto… ma da un rapido esame dell’interno della casa pare che non sia stato toccato nulla... Sì, c’è quel grammofono all’ingresso. Uno dei due rapitori ha tentato di rubarlo infrangendo la vetrina dove si trova una collezione di vecchi giradischi... ma poi per la fretta di uscire dall’appartamento o per qualche altro motivo ha dovuto lasciare il souvenir.»
«Scusi, posso rivedere il filmato?»
Un paio di colleghi della squadra investigativa si girarono sulla sedia per capire chi avesse fatto la domanda. Janis.
«Cosa ha detto, detective Atkinson?» domandò McIntosh leggermente confuso.
«Il filmato. Lo può rimandare dall’inizio per favore?»
McIntosh la guardò negli occhi per alcuni istanti senza mascherare la sua perplessità, poi si convinse a armeggiare col telecomando. Elvis Presley e Michael Jackson, pistole in pugno, fecero il loro ingresso per poi sparire dall’inquadratura, allontanandosi a passo spedito.
«Torni indietro, per favore» chiese ancora Janis.
Sospirando come se dovesse compiere un’ultima fatica, McIntosh fece scorrere indietro le immagini. Ancora una volta Elvis e Michael Jackson.
«Ecco, fermi qui» chiese Janis quando giunse il fotogramma che le interessava.
La giovane detective si alzò dal fondo della sala dove era seduta e si avvicinò alla lavagna digitale tenendo gli occhi fissi sul fermo immagine.
«L’uomo mascherato da Elvis… cos’ha in mano?» domandò.
Leggermente sorpreso, McIntosh si avvicinò alla lavagna e inforcò gli occhiali da vista. Si sporse in avanti e corrugò la fronte. Dalle immagini si vedeva che uno dei rapitori reggeva qualcosa nella mano sinistra. «Un foglio… un quadro... qualcosa di simile.» disse McIntosh
«A me sembra la copertina di un disco» disse un poliziotto in piedi davanti alla porta.
«Sì» assentì Janis «Hai ragione Emerson, sembra la copertina di un disco»
«Forse voleva un autografo da Thomas» disse scherzosamente uno dei detective. Un brusio di commenti e di risatine si diffuse immediatamente tra i presenti.
«Okay, okay, lo so che può sembrare un dettaglio irrilevante ma non faremo ipotesi finché non avremo raccolto e confrontato tutte le informazioni.» Disse McIntosh togliendosi gli occhiali, mentre Janis era ancora concentrata sul fermo immagine del rapitore.
«Non voglio che si cerchino prove per dimostrare una teoria. Voglio che si raccolgano prima tutti gli indizi e che poi si cominci a pensare.»
Si sentì un nuovo brusio nella sala, mentre Janis aveva ancora lo sguardo fisso sulla lavagna interattiva. I suoi occhi blu parevano assorti in pensieri lontani ed indecifrabili per tutti quei detective che affollavano la sala riunioni.  
«Va bene ragazzi. Non perdiamoci in chiacchiere.» disse ad un certo punto McIntosh sollevando le mani per placare gli animi.
«Com’è ovvio sarà necessario fare luce senza indugi sulla vicenda. Il nostro dipartimento sarà sotto i riflettori della stampa e pertanto cerchiamo di non fare la figura degli idioti».
«Detective Atkinson, hai interrogato i vicini... Janis... dov’è finita?» disse McIntosh guardandosi intorno.
Ma Janis non c’era più. Silenziosa e rapida era già uscita dal Criminal Investigation Department, diretta verso Lansdowne Crescent.

Quando Janis entrò nell’appartamento numero 507 del Samarkand, sapeva esattamente cosa cercare. Si chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò lentamente al grammofono, guardandolo con un misto di curiosità e impazienza. Era ancora lì, silenzioso e inerte sul tavolino dell’ingresso, sembrava in attesa di essere messo in funzione.
Per essere un pezzo d’antiquariato era in ottimo stato, pensò Janis, osservandone gli eleganti intarsi sul legno del basamento, la forma vagamente floreale della tromba, il braccio con la puntina appoggiata delicatamente... su un vinile.
«Eccolo!», esclamò inarcando un sopracciglio in una smorfia di soddisfazione.
Lo fissò per alcuni istanti, il tempo sufficiente per rendersi conto che la sua intuizione aveva trovato una prima conferma: quel grammofono posto sul tavolino dell’ingresso non rappresentava un maldestro tentativo di furto, ma un gesto consapevole e pianificato compiuto dai rapitori. Un messaggio da interpretare e che forse aveva qualcosa a che fare col rapimento di Frank Thomas e del suo amico Rodriguez.
Janis avvertì un brivido di eccitazione. Forse aveva visto giusto. La soluzione del caso era lì, e la guardava dritta in faccia. Si abbassò sul vinile per osservarlo meglio e per leggere il titolo  sull’etichetta circolare. Si aspettava un Gershwin, un Armostrong oppure un disco di walzer... e invece si trattava di un dei dischi più celebrati ed influenti della storia del rock: sul piatto di quel grammofono c’era The Wall, il capolavoro dei Pink Floyd.
Sul suo viso comparve una smorfia di stupore, la sua mente da investigatore non aveva previsto un disco di musica rock su un grammofono dei primi del Novecento. Strinse gli occhi come per vederci meglio, abbassò il mento e con la bocca contratta si rese conto che c’era anche un’altra cosa sull’etichetta: un piccolo adesivo rettangolare con su scritto “VinyLondon – 8 Denmark St, London”. La osservò con attenzione finché non distolse lo sguardo. La sua mente aveva elaborato improvvisamente un’idea. Annuì a se stessa e si girò verso il poliziotto grassoccio di guardia all’ingresso.
«Rintraccia l’agente Copeland. Digli di venire subito.»

 

 

(continua)

© 2019 Alan Palma