NESSUNA GARANZIA

capitolo 1

David Coleman sorrise alle nuvole nere che si profilavano all’orizzonte e alle prime gocce che, sempre più insistentemente, cominciavano a picchiettare sui vetri della sua finestra. Era contento della pioggia: obbligava le persone a tenere la testa bassa e a tirare dritto senza farsi troppe domande, senza perdere tempo a riflettere. Col suo incessante scrosciare avvolgeva la città in una sorta di nebbia che inghiottiva le persone in un rassicurante anonimato, offuscando e quasi dissolvendo le loro identità.

Appena sentì bussare alla porta, un guizzo percorse i muscoli della sua mascella, ma non si scompose più di tanto: conosceva quel modo discreto e preciso di battere.

Girò la testa quel tanto che gli bastava per inquadrare la porta del suo ufficio e con voce ferma disse: «Avanti!»

Un uomo alto e magro, vestito di scuro, entrò con passo deciso, per poi arrestarsi davanti alla scrivania di mogano.

«Buongiorno, avvocato.» Lo salutò con aria seria e formale.

«Buongiorno, Roberto» gli rispose Coleman

«Cosa c’è in programma stamattina?»

Senza perdere neanche un istante del loro tempo prezioso, Roberto Salvini fece il punto con risolutezza.

«I legali della Hinoki vogliono esaminare l’ultima serie dei documenti probatori. Affermano che la visione di tali documenti sia basilare per dare credito alle nostre accuse, probabilmente per fugare qualsiasi traccia di infrangimenti di tecnologie brevettate.»

Coleman strinse gli occhi come era solito fare quando si concentrava su qualcosa e, senza dire nulla, si girò verso l’ampia vetrata del suo ufficio, aprendola quel tanto che bastava per far filtrare la fresca brezza autunnale.

Il panorama era ben diverso da quello che fino a un paio d’anni prima era abituato a vedere, dal cinquantaduesimo piano di un grattacielo nel cuore del distretto finanziario di Chicago. La sede milanese dello studio legale Stevenson, Pedretti & Coleman si trovava, invece, in un palazzo di sei piani in piazza Belgioioso, esempio autorevole di architettura neoclassica.

Con più di 2.000 avvocati e con 21 sedi situate nelle più importanti piazze finanziarie, lo Stevenson, Pedretti & Coleman era uno dei principali studi legali del mondo. Sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1978 dalla fusione di tre dei principali studi legali di Chicago – lo Abraham Stevenson, il Pedretti & Partners e lo studio di Eric Coleman, padre di David – era regolarmente citato come uno tra i migliori studi legali degli Stati Uniti, potendo vantare tra i suoi clienti società multinazionali, istituzioni finanziarie internazionali e pubbliche amministrazioni.

«È una tattica dilatoria.» sentenziò Coleman osservando la pioggia ormai battente.

«Sono con l’acqua alla gola e cercano di prendere tempo per provare a riordinare le idee e organizzare al meglio la difesa.»

A quelle parole Salvini si sedette sulla poltrona di fronte alla scrivania, massaggiandosi nervosamente le tempie.

«Avanti, sputa il rospo» gli disse Coleman percependo la sua agitazione. Lo conosceva fin troppo bene e sapeva meglio di chiunque altro che quando si comportava in quel modo era perché qualcosa gli frullava nella testa.

«Forse» azzardò Salvini, come seguendo un ragionamento tutto suo «vogliono proporre una transazione.»

«Transazione?» esclamò Coleman voltandosi di scatto «E quanto dovremmo far sborsare alla Namex?»

«Un bel niente.» rispose Salvini alzando gli occhi verso di lui. «I nostri esperti hanno demolito i loro. Noi sappiamo che…»

Proprio in quel momento lo squillo del telefono irruppe tra le sue parole e Coleman, dopo un istante di esitazione, si avvicinò alla scrivania. «Sì» grugnì dopo aver afferrato il ricevitore.

In un attimo il suo volto divenne serio, contratto, gli occhi assunsero un’espressione inquieta.

«Mi libero subito.» disse poi con voce sommessa, rispondendo alla sua segretaria.

Abbassò il ricevitore con lo sguardo fisso nel vuoto, assorto in un pensiero angoscioso.

“Cosa diavolo ci fa qui?” cominciò a chiedersi ossessivamente, mentre la preoccupazione cominciava a salire.

Fece il giro della scrivania e si sedette sulla poltrona, appoggiando il capo allo schienale. Chiuse gli occhi e rimase immobile, senza dire nulla. Salvini lo guardò con aria preoccupata e quando fece per aprire bocca, fu lo stesso Coleman ad anticiparlo.

«Va bene Roberto, continuiamo più tardi», disse con voce apparentemente calma «Adesso ho una rogna da sbrigare».

Un po’ perplesso, il giovane associato si alzò e, senza perdere tempo, uscì dall’ufficio chiudendo silenziosamente la porta.

Coleman rimase immobile, assorto nei suoi pensieri, lo sguardo fisso sulla poltrona vuota che aveva di fronte.

“Perché Domino è venuto fin qui?”, si chiese preoccupato, dandosi subito dopo una risposta che gli gelò il sangue nelle vene.

“Il suo arrivo a Milano deve essere per forza legato a qualche altro suo losco affare, dal quale non me ne potrò tirare fuori.”

Frank Domino era l’amministratore delegato della Drake Corporation, una multinazionale americana leader mondiale nell’automazione industriale e nella robotica. In Europa e in Nord America la Drake rappresentava uno dei due principali fornitori di soluzioni di automazione per l’industria e forniva la più ampia gamma di robot industriali, tra cui quelli dedicati ad applicazioni di saldatura, pallettizzazione, movimentazione, verniciatura ed applicazioni in clean rooms. Con più di 300.000 robot installati in tutto il pianeta, la Drake rappresentava uno dei maggiori produttori di robot industriali del mondo. E ogni anno versava fior di milioni di dollari in parcelle e spese agli avvocati della Stevenson, Pedretti & Coleman.

Qualcuno bussò con decisione alla porta facendo sobbalzare Coleman, ancora assorto nei suoi pensieri.

«Avanti!» scandì con decisione. La maniglia ruotò verso il basso e il volto di Silvia, la sua segretaria, fece capolino dalla porta appena aperta.

«I suoi ospiti sono qui, avvocato» annunciò con deferenza.

«Falli entrare, cosa aspetti?» le rispose vagamente irritato.

Silvia scivolò piano dall’ufficio e un istante dopo entrò il cranio semicalvo di Frank Domino, accompagnato dalla sua assistente personale, Annette Evans.

«Frank, come stai?», lo salutò cordialmente Coleman balzando in piedi dalla poltrona. Sembrava che tutti i pensieri che fino a un attimo prima gli brulicavano nel cervello si fossero dissolti in un batter d’occhio.

«Benone, David. Grazie.» rispose Domino, afferrandogli la mano e stringendogliela forte.

Coleman diede un cortese benvenuto anche alla sua assistente, chinando il capo e dicendo semplicemente «Annette.» 

«Scusa se non ti ho avvisato prima» disse Domino «ma ho dovuto sbrigare delle faccende urgenti.»

«Non c’è problema.» Coleman gli diede una pacca sulla spalla. «Lo so che la tua vita è piena di faccende urgenti.»

I due sorrisero all’unisono, mentre Annette li osservava impassibile come un moai.

«Cosa vi posso offrire?» chiese Coleman, invitandoli ad accomodarsi sul divano in pelle.

«Se c’è, del caffè» rispose Domino, mentre Annette chiese un bicchiere d’acqua.

«Allora, come vanno gli affari?» chiese Coleman versando del caffè da un thermos.

«Bah, come al solito… si va avanti» gli rispose Domino dopo aver bevuto un sorso di caffè.

«Ma il mercato è sempre più dinamico e occorre essere pronti a reagire ad ogni imprevisto» aggiunse alzando la tazza come nell’atto di brandire una spada.

«Si tratta solo di soddisfare le sue aspettative più rapidamente ed in modo mirato.» Ribatté Coleman accomodandosi di fronte a loro con un leggero sorriso che aleggiava sulle sue labbra.

«Già» annuì Domino, ridendo e bevendo un altro sorso di caffè.

Passarono diversi secondi di silenzio totale, durante i quali le palpebre di Coleman si aprirono e si chiusero spasmodicamente per una cinquantina di volte. Poi, guardando alternativamente i suoi ospiti, disse: «Allora, a cosa devo la vostra visita?»

Domino accavallò le gambe e iniziò a tamburellare con le dita sul bracciolo. «Ho bisogno che tu faccia un lavoro per me.»

Lo sguardo di Coleman divenne improvvisamente serio, incapace di nascondere il suo sottile senso di preoccupazione.

“Non farmi incazzare, stronzetto.”

«Vuoi cominciare tu, Annette?» chiese alla sua assistente, cercando si mettersi comodo sul divano, che era praticamente tutto per lui.

Annette Evans, la persona che Coleman odiava di più al mondo. Per lui era una troietta con la puzza sotto il naso, antipatica e scontrosa che si era fatta strada nella Drake sfruttando la più becera strumentalizzazione del suo corpo da modella. Il disprezzo era reciproco, e si manifestava continuamente da anni.

Senza perdersi in troppi giri di parole, Annette andò subito al sodo.

«I nostri informatori ci hanno riferito che un’azienda della zona, la HGC Automation, anch’essa operante nel settore dell’automazione industriale, è impegnata nello sviluppo di un nuovo prodotto.»

Sul volto di Coleman comparve un’espressione perplessa, che sapeva di “E allora?”

«Circa due anni fa» continuò Annette noncurante, «il consiglio di amministrazione della HGC ha approvato una spesa straordinaria di quasi quindici milioni.»

«Che cosa?» esclamò Coleman sgranando i suoi occhi grigio-verdi «Quindici milioni di euro?»

«Sì, quindici» intervenne Domino «Il consiglio li ha approvati per il finanziamento di un progetto interno top secret fidandosi esclusivamente delle sole promesse di Luigi Gentile, l’amministratore delegato. Gentile ha assicurato ai componenti del consiglio di amministrazione che il progetto rappresenterà un importante balzo in avanti nel settore.»

«Ma… di cosa si tratta?» chiese Coleman mettendosi comodo sulla poltrona.

“Se lo sapessi, non saremmo qui, idiota.”

Per Annette, David Coleman era un incapace raccomandato dal padre, sopravvalutato e strapagato; per questo quando lui commetteva anche un piccolo errore non perdeva l’occasione di evidenziarlo, infierendo oltremodo su di lui, ridicolizzandolo e facendogli patire le pene dell’inferno… ma per quella volta, si limitò a scrollare le spalle.

«Non lo sappiamo, David» rispose Domino, scuotendo la testa sconsolato.

«Ma di qualunque cosa si tratti, il mio sesto senso mi dice che sarà l’idea più rivoluzionaria del settore. E che chiunque non vi faccia parte sarà tagliato fuori.»

«Sembra che l’azienda» aggiunse Annette «oltre ad aver destinato ingenti risorse finanziarie e strumentali per sostenere il progetto, abbia allargato la Ricerca e Sviluppo con l’inserimento di cinque nuovi ingegneri e due scienziati. Ma non solo. Sembra che la HGC abbia ordinato una grossa fornitura di un materiale speciale, utilizzato nelle costruzioni di mezzi aerospaziali, il carbonio pirolitico.»

Seguì un attimo di silenzio, durante il quale Coleman sembrava confuso e sempre più preoccupato.

Improvvisamente, Domino trascinò il suo peso sul bordo del divano, avvicinandosi così tanto che Coleman gli poteva vedere i capillari degli occhi.

«David, le mie fonti mi hanno garantito che questo progetto top secret trasformerà il settore dell’automazione industriale, che capovolgerà tutto quanto» disse con un’espressione melodrammatica dipinta sul volto.

«Ho investito troppo nella Drake e non intendo rimanere indietro, capisci? Non me ne frega niente se stanno progettando un picker ad alta velocità o un maledetto robot a cinematica parallela. Voglio solo scoprire tutto il possibile riguardo questo reparto speciale: che cosa fa, che cosa sta sviluppando, chi ne fa parte. È per questo che siamo venuti fin qui a chiedere il tuo aiuto.»

Le sue parole furono seguite da un silenzio quasi irreale che avvolse l’ufficio come un manto pesante, interrotto solo dalla voce esitante e angosciata di Coleman.

«Il mio… aiuto? Come posso aiutarti io, Frank?»

Domino non rispose, continuando a fissarlo dritto negli occhi.

«Devi trovare qualcuno da introdurre dall’esterno» intervenne Annette «Una spia insospettabile.»

Coleman si girò di scatto verso di lei «Qualcuno?», domandò con un senso di inquietudine nella voce.

«Sappiamo che la HGC ha aderito ad un progetto formativo del Ministero dell’Istruzione italiano, che prevede l’assunzione di stagisti, studenti universitari agli ultimi anni. L’idea è quella di… »

«…prendere uno studente che abbia una buona carriera» la interruppe bruscamente Domino, lanciandole un’occhiata come per scusarsi «osservarlo da lontano e in modo discreto per un po’, magari cercando di facilitargli gli studi e permettendogli di presentare una tesi interessante. A quel punto il nostro studente si metterà alla ricerca di un’azienda prestigiosa e innovativa dove fare il suo stage… e i cui laboratori sono oggetto della nostra curiosità. Noi saremo lì ad aiutarlo e, durante il suo soggiorno, avrà accesso a tutti i laboratori, intrattenendo relazioni con i ricercatori. Di conseguenza, diventerà per lui facile raccogliere qualsiasi informazione importante, anche senza il bisogno di chiederla.»

La voce di Domino pareva crescere di tono ed aveva in sé una sinistra esultanza che Coleman faceva fatica a comprendere.

«Durante lo stage la nostra talpa verrà accuratamente interrogata e tutte le informazioni raccolte andranno ad alimentare la nostra banca dati, fino ad arrivare a conoscere tutti i dettagli di questo dannato progetto top secret.»

Ancora silenzio, questa volta interrotto dalla voce indignata di Coleman «Un giovane stagista?» disse con una risata isterica «Ma… ma che cosa… è una follia!» disse alzandosi in piedi.

«Vi rendete conto di cosa mi state chiedendo… e poi… e poi… è troppo rischioso! Non possiamo affidare un compito del genere ad una persona giovane ed inesperta.»

Mentre parlava camminava avanti e indietro come in preda a un delirio mistico.

«Correremmo il serio pericolo di essere scoperti in meno di ventiquattrore!»

Domino si passò una mano sugli occhi sospirando, mentre Annette lo fissava atterrita.

“È impazzito? È uno scherzo? Che diamine gli sta succedendo?”

I due si guardarono annuendo, poi con voce ferma e decisa Domino disse: «Un milione. Metà a te e metà alla nostra talpa.»

Come per incanto, Coleman si bloccò, sentendo improvvisamente come un groppo in gola che gli tolse il respiro per un istante. Le parole però gli uscirono spontanee, quasi senza che lui se ne accorgesse: «Mezzo milione a testa?» disse balbettando «Sono un mucchio di soldi… per uno studente.»

«Già… e anche per un avvocato» aggiunse Domino, alzandosi a fatica dal divano, facendo forza con le braccia.

Coleman increspò le labbra in un sorriso amaro, mentre i due si avviavano verso l’uscita.

Li accompagnò alla porta e, un attimo prima che la chiudesse, Domino si girò verso di lui e con un sussurro gli disse: «Trovalo!»

Gli occhi grigio-verdi di Coleman lampeggiarono di fronte a quell’ordine repentino, impartitogli da quello che era uno dei suoi principali clienti… ordine che non pareva ammettere repliche.

Rimasto solo, si avvicinò alla vetrata, spalancandola e respirando l’aria umida. Aveva da poco smesso di piovere e si stava aprendo il cielo.

Lasciò passare qualche secondo prima di aprire gli occhi su piazza Belgioioso dove vide l’elegante macchina scura di Domino partire a tutta velocità.

“Accidenti a quel vecchio pazzo!”, sbottò con una smorfia che gli contorse i lineamenti del viso.

“Non può pretendere certi lavori da me!”

Aveva gli occhi dilatati, sembrava sul punto di voler decidere se mettersi a urlare o reprimere quel desiderio selvaggio.

“Trovare una talpa!”

Chiuse gli occhi sforzandosi di trovare la concentrazione.

“Uno studente… un laureando…”

Improvvisamente, un misto di stupore e gioia dipinsero il suo volto, lo sguardo divenne fisso come se avesse avuto una visione. «Mio Dio!», disse con voce strozzata.

La sua espressione cambiò, tornando pacata e quasi serena, ma dalla perfetta espressione di figlio di puttana.

 

 

Un Ducato dell’Enel era parcheggiato a pochi portoni di distanza dall’ingresso dello Stevenson, Pedretti & Coleman, a due passi dalla casa natale di Alessandro Manzoni. I due tecnici che vi erano all’interno avevano approntato un sistema di intercettazione sulla linea telefonica di Coleman e avevano installato una microtrasmittente sul cavo di rete. Le casse del televisore di Coleman si erano trasformate in un potente dispositivo di ascolto.

 

 

capitolo 2

“Veloce, veloce, devo essere veloce!”

Daniel Marconi uscì di casa chiudendo la porta con un tonfo tremendo. Diede due mandate di chiave e scese di corsa le scale, dirigendosi frettolosamente verso la stazione della metropolitana di Bonola, distante pochi isolati da casa sua.

Dopo una nervosa attesa, il treno giunse in pochi minuti, come sempre pieno zeppo di pendolari che tutte le mattine si recavano al posto di lavoro. Ma per Daniel non era un problema, ormai ci era abituato.

Entrato nel vagone si guardò attorno, osservando gli altri passeggeri nel silenzio generale. Non colse nemmeno un sorriso; solo facce sempre più cupe, sempre più grigie, sempre più nervose. Nessuno parve accorgersi di lui. Del resto l’anonimato è d’obbligo nel mondo sotterraneo.

Le ruote del treno rallentarono la loro frenetica corsa nella stazione di San Babila. Quando le porte si aprirono, i passeggeri, attenti a sgomitare con eleganza, cominciarono a guadagnare l’uscita, mentre un fiume di gente era in attesa di salire alla ricerca di un posto. Ogni mattina la stessa storia.

Mentre la gente defluiva lentamente, Daniel schizzò verso l’uscita e, facendosi largo tra i pendolari, salì le scale che portavano all’esterno. Il sole accecante lo abbagliò, costringendolo a socchiudere gli occhi e a sollevare la mano sinistra per ripararsi. Quando lentamente riaprì gli occhi, lo sguardo cadde sulle lancette del suo orologio da polso e una pura espressione di panico si dipinse sulla sua faccia.

«Oh, merda!» esclamò, «Sono in ritardo!».

Non sapeva spiegarselo, ma nonostante ce la mettesse sempre tutta per arrivare in tempo in ufficio, succedeva sempre qualcosa o incontrava qualcuno che gli faceva perdere tempo.

Cominciò a correre su Corso Matteotti, facendosi largo in mezzo alle facce ansiose e serie dei passanti, fino a fermarsi di colpo a un semaforo rosso, andando quasi a sbattere sul sedere di una ragazza. In attesa del verde Daniel ne approfittò per prendere fiato; la giornata non era iniziata che lui era già esausto.

Quando il semaforo dei pedoni scattò sul verde Daniel trasse un profondo respiro e riprese a camminare con passo spedito.

Qualche minuto più tardi superò l’elegante portico che delimitava piazza Belgioioso, dove si ergeva il palazzo che ospitava la sede italiana dello Stevenson, Pedretti & Coleman. Spinse la porta a vetro e quando si richiuse l’assordante rumore dei clacson, delle frenate di autobus, del ticchettio di tacchi e di suole, come per incanto, svanirono in un pacifico e rassicurante silenzio.

Come molti studi legali, anche la Stevenson, Pedretti & Coleman aveva investito parecchio in immagine da vendere agli occhi di clienti e visitatori: l’arredamento era costoso e di stile moderno e alle pareti erano appesi quadri di arte astratta.

Una bellissima receptionist, che poteva tranquillamente essere una modella di Vogue, era dietro un bancone in attesa di rendersi utile e dare indicazioni ai visitatori. Daniel la superò di corsa, infilandosi nell’ascensore, giusto in tempo prima che le porte automatiche si chiudessero. Un gruppetto di avvocati, intenti a discutere animatamente tra di loro, smisero di parlare e si girarono ad osservarlo.

Daniel sentì i loro sguardi puntati su di sé, ma la cosa non lo imbarazzò affatto. Nell’ultimo mese era almeno la settima volta che si presentava in ritardo e ormai era abituato alle risate e alle battute ironiche dei colleghi.

Mentre riprendeva fiato, Daniel si guardò allo specchio della cabina: era proprio ridotto male, gli occhi stanchi e arrossati e tutti quei capelli spettinati che coprivano metà del suo viso pallido.

Da quando era stato assunto nell’assistenza tecnica dello studio legale era costretto a dividersi tra il lavoro e il Politecnico, facendo su e giù dal quartiere periferico dove viveva. Un lavoro per pagarsi gli studi, che gli permetteva di non gravare sulla madre che tirava a campare grazie alla pensione del padre defunto anni prima.

Daniel si guardò con leggero disgusto ma alzò le spalle in un gesto di rassegnazione.

Uscì dalla cabina al primo piano dove, a dispetto della reception e delle sale riunioni destinate agli incontri con i clienti, l’arredamento era essenziale e di media qualità. Lungo i corridoi si allineavano i classificatori metallici e gli armadi contenenti documenti archiviati.

Il piano era destinato a ospitare i neoassunti, gli stagisti, gli addetti alla manutenzione e all’assistenza tecnica, i quali venivano stipati in tre o in quattro in spazi angusti e privi di finestre, mantenuti accuratamente lontano da occhi indiscreti. Era il prezzo che le società erano costrette a sopportare a causa del costo degli immobili e che le obbligava a ossessive ottimizzazioni e a crudeli razionalizzazioni interne.

Daniel entrò di corsa nella sua stanzetta e dopo aver chiuso la porta, si tolse la giacca appoggiandola sullo schienale della sedia. Fece appena in tempo ad avviare il suo pc che il telefono iniziò a squillare. Sbuffando vi si avvicinò e quando lesse il nome sul display trasalì: Rita Clerici, il capo del personale.

Rita Maria Antonia Clerici era una quarantenne single, seria, sempre incazzata e abbastanza stronza da meritarsi il nomignolo di Jena Plissken. Fino a trentadue anni era stata assistente di diritto del lavoro all’Università del Sacro Cuore; poi, per una qualche ragione, aveva deciso di lavorare in uno studio legale.

«Cazzo, cazzo, cazzo!» esclamò Daniel stringendo forte gli occhi, col respiro strozzato a metà.

«Si?» rispose, cercando di dissimulare la sua grande agitazione.

«Buongiorno Marconi. Anche oggi ce la siamo presa comoda...» esordì Rita.

«Se le racconto quello che mi è successo non ci crederà: mi sono fermato per un caffè, e il bar era stato appena rapinato, così la polizia non ha fatto allontanare nessuno per interrogare tutti i testimoni sull’accaduto e…»

«Okay, okay, mi risparmi le sue scuse patetiche e apra bene le orecchie.»

Daniel si azzittì all’istante, leggermente frustrato.

«David Coleman le vuole parlare.»

Appena sentì pronunciare quel nome, Daniel deglutì a vuoto, mentre nella sua testa delle voci cominciarono a ripetere quel nome all’infinito: “David Coleman? David Coleman? David Coleman? David Coleman?...”

«Daniel? Ha capito cosa le ho detto?» la voce di Rita lo scosse dal vortice di pensieri che si era formato nella sua testa.

«Sì… certo.» biascicò

«David Coleman ha bisogno di parlare con lei» ribadì Rita, sottolineando il “lei” con un’espressione di ironia mista a disprezzo.

«Alle ore undici. E mi raccomando,» aggiunse con tono severo «almeno questa volta cerchi di essere puntuale!»

«Okay» rispose lui, prima di sentire il clic di chiusura della telefonata.

Con la mente ancora confusa, Daniel si mise a sedere con lo sguardo fisso sul ripiano della scrivania, appena sufficiente per il laptop, un blocco per gli appunti, il telefono fisso e non  molto altro.

“David Coleman, il re degli avvocati più corrotti e temibili di Milano, vuole parlare con me?”

 

(continua)

© 2019 Alan Palma