PREDA/PREDATORE

capitolo 1

 

PREDA

Quando intravide il cadavere, Elena perse i sensi. Sentì le gambe sciogliersi come fossero di burro e cadde, ritrovandosi tra le mie braccia appena in tempo, prima che rovinasse a terra. Tenendola delicatamente in braccio, la portai fino ad una macchina della Polizia parcheggiata sul ciglio della strada, dove la adagiai sul sedile posteriore.  

«Chiamo un’ambulanza.» mi disse una agente, cercando di alleviare il mio senso di impotenza. La guardai dritta negli occhi, prima di annuire senza dire niente. Abbassai lo sguardo sul volto di Elena, era pallido e liscio come porcellana. Mi chinai appena e le accarezzai la fronte con la punta delle dita, scostandole una ciocca di capelli dal viso.

Coraggio, piccola mia!

Serrai i pugni, cercando di trovare la forza per affrontare quello che mi apsettava e mi diressi verso il punto dove era stato commesso l’omicidio.

L’aria gelida della notte penetrava nei polmoni, mentre il buio fitto mi avvolgeva completamente, interrotto solo dalla vorticosa luce azzurra dei lampeggiatori. Mentre avanzavo nell’oscurità, sentivo il mio respiro farsi pesante, affannoso, accompagnato dallo scricchiolio dei miei passi sul selciato. Più avanti, sagome nere si muovevano lentamente facendosi luce con delle torce, la cui luce proiettava in modo contortole loro ombre allungate sul terreno. Erano gli uomini della Scientifica, intervenuti per i rilievi, alla ricerca di indizi e dell'arma del delitto. Una telefonata anonima aveva avvertito la Polizia della presenza di “un corpo insanguinato” su una pista ciclabile nella prima periferia di Roma e, quando i militarierano accorsi sul posto, intorno alle 23.30, ogni forma di soccorso si era rivelata inutile. Riccardo Bevilacqua fu raggiunto quando, oramai, se ne poteva constatare solo il decesso.

All’improvviso, il mio piede urtò qualcosa sul terreno, facendomi trasalire. Dal rumore prodotto, pareva essere qualcosa di metallico, pensai a delle catene, ma il buio mi impediva di identificare chi o cosa aveva prodotto quell’inquietante stridulo. Un istante dopo, un cono di luce squarciò le tenebre, bruciandomi gli occhi. Istintivamente, gettai le braccia in avanti per coprirmi gli occhi col palmo delle mani. Il fascio di luce, danzando nervosamente sul mio corpo, si diresse verso il basso, fino ad illuminare le mie scarpe. Solo allora capii che qualcuno degli uomini aveva puntato su di me la sua torcia elettrica. Guardai per terra, dove il telaio di una bicicletta sfavillava di mille colori come tanti Swarovski.

La mountain bike di Riccardo.

«Faccia attenzione!» mi urlò l’uomo con la torcia, prima di scomparire di nuovo nell’oscurità. La luce si spense e tutto ripiombò nel buio. In quel posto così tetro restai smarrito, disorientato, nel tentativo di raccogliere i miei pensieri che si sovrapponevano confusamente l'uno sull'altro.

Dove mi trovo? Perché sono qui? E poi... qui dove?

Scrollai leggermente il capo per scacciare quei pensieri dalla mia testa e mi diressi con passo deciso verso il punto dove era stato commesso l’omicidio.

Passai tra gli agenti della Scientifica, qualcuno di essi si scusò per avermi sfiorato, e mi fermai attonito davanti al cadavere. Appena lo vidi, una morsa alla bocca dello stomaco mi afferrò violentemente, mentre un’incontenibile voglia di piangere e urlare mi fece tremare le mani. Riccardo giaceva ai miei piedi, con una profonda ferita alla testa, dalla quale era uscito parecchio sangue che aveva formato una piccola pozza sotto il suo viso. Mi abbassai sulle ginocchia e, quando vidi l’espressione del suo volto, con gli occhi vitrei e fissi sul nulla, cercai di trattenere le lacrime con ampi respiri. Chiusi gli occhi, sforzandomi di non piangere… ma in un attimo le lacrime mi bagnarono il volto. Piansi, piansi con rabbia e con dolore, pensando a chi aveva potuto fargli una cosa così orribile.

«Devono essere spuntati da una di queste siepi che delimitano la pista ciclabile... Lo hanno buttato giù dalla bicicletta e lo hanno colpito alla testa con quel bastone.»

L’uomo con la torcia elettrica, orientò il fascio di luce in direzione della vegetazione ai lati, e quindi sulla pista ciclabile, fin quando il cerchio di luce inquadrò un paletto di legno.

«Hanno preso quello che la vittima portava con sé e, quindi, si sono dileguati rapidamente, facendo perdere le loro tracce.»

Finita la fredda ricostruzione, l’uomo si voltò verso di me, guardandomi fisso negli occhi, comeper dimostrarmi che si fidava di me e che io avrei dovuto fare altrettanto con lui.

«Sono l’ispettore Desideri.»

Incrociai per un attimo il suo sguardo, prima di tornare sul corpo di Riccardo.

«Chi... Chi è stato a fargli questo?» domandai con un filo di voce.

Desideri affondò le mani nelle grosse tasche dell’impermeabile e, con voce pacata, mi chiese: «Era un suo amico?»

Quella semplice e apparentemente innocua domanda, mi provocò una fitta allo stomaco. Chiusi gli occhi per trattenere quello che sarebbe stato un pianto disperato, mentre sentivo il suo sguardo che mi studiava con attenzione. Inspirai profondamente, facendo entrare l’aria gelida nei polmoni. Quindi annuii in silenzio con un semplice cenno del capo.

«Probabilmente zingari. In questa zona, poco più in là, c’è un campo nomadi abusivo. Stiamo già indagando.»

Restai imperturbabile, con lo sguardo perso nel buio, mentre Desideri, guardandomi con aria di sfida, aggiunse «Li troveremo, quei cani.».

«Stia attenta a dove mette i piedi!» gridò qualcuno dietro di noi. Ci voltammo entrambi di scatto, scorgendo Elena in compagnia della agente che l’aveva soccorsa poco prima. Appena la vidi, le andai incontro correndo e la abbracciai forte. Mentre la stringevo, chiusi gli occhi come se volessi dimenticare tutto ciò che avevo appena visto. Lei restò immobile senza dire niente, mentre sentivo il suo respiro farsi lento. Sollevai la testa dalla sua spalla e, dopo pochi istanti, vidi il suo volto impallidire, mentre teneva gli occhi fissi sul cadavere di Riccardo.

«Non guardare.» le dissi tirandola a me. La abbracciai ancora e, mentre la stringevo, alzai lo sguardo incrociando quello di Desideri che, in silenzio, mi fissava dubbioso.

  

 

 


capitolo 2

 

Tre settimane dopo, nella sede della Charleston Tobacco International, l’attività procedeva coi consueti ritmi frenetici, nonostante la cappa di malinconia che sembrava ancora avvolgere i diversi uffici. Lo sgomento e il dispiacere si leggevano sui volti dei colleghi, i quali si erano trovati privati, senza un apparente motivo, di una figura importante. Riccardo era considerato da tutti una persona di elevate doti morali e professionali, ben voluto dai colleghi e particolarmente stimato dai superiori. In pochi anni la sua carriera era stata folgorante, passando da brillante neo-assunto a manager capace e determinato. Per tutti, Riccardo rappresentava non solo un modello di riferimento da emulare nel lavoro, ma anche l’esempio da seguire nella vita di tutti i giorni. I suoi genitori erano morti in un incidente stradale quando era ancora bambino, ed era stato affidato ad una zia depressa che si suicidò con una dose eccessiva di barbiturici quando Riccardo aveva l’età di vent’uno anni. Tutti ammiravano il ragazzo orfano che, tra mille problemi e sofferenze, si era laureato a pieni voti e, con le proprie forze, era riuscito a raggiungere i vertici di una importante multinazionale. Una multinazionale che con i suoi 950 miliardi di sigarette prodotte ogni anno nelle 70 fabbriche dislocate in tutto il mondo, rappresentava una delle società di tabacco leader nel mondo. Un autentico colosso, che produceva nove fra le prime venti marche più vendute nel mondo, con una quota pari al 25% del mercato internazionale di sigarette.

Al quarto piano, in piedi nel mio ufficio, osservavo in silenzio la pioggia che incessantemente picchiava sulla vetrata. Le gocce d’acqua scendevano lungo il vetro, muovendosi le une con le altre, rincorrendosi, fermandosi e ripartendo di nuovo, in un gioco privo di significato. Alzai gli occhi fino a incrociare il mio stesso sguardo riflesso nella vetrata. Restai immobile a fissarlo per alcuni minuti, i miei occhi sembravano assenti e persi nel vuoto. Un lampo fece balenare nella mia mente la dolorosa scena di diversi giorni prima, l’angosciante nugolo di figure scure che sembrava danzare attorno al corpo senza vita di Riccardo. Chinai il capo fino a toccare il vetro con la fronte. Un flusso di pensieri inondò la mia mente riportando a galla il nostro primo incontro, che coincise col mio primo giorno di lavoro. Fu proprio lui, Riccardo, ad accogliermi appena varcata la porta d’ingresso. Mi strinse la mano come un amico ritrovato dopo tanto tempo.

«Stefano Preite?» mi chiese con un gran sorriso.

«Si.» gli risposi.

«Lieto di conoscerti. Io sono Riccardo Bevilacqua.»

Mi offrì il caffè, poi iniziammo il giro degli uffici.

«Lui è il nostro nuovo collaboratore.» diceva ad ognuno che incontravamo. Tutti sorridevano e annuivano, mentre io ricambiavo imbarazzato. Da quel giorno ebbe inizio la mia avventura nella CTI, sotto la guida di Riccardo. Furono anni di duro lavoro ma anche di eccellenti risultati. Tutto questo anche grazie alla straordinaria capacità di Riccardo di trasmettere conoscenze, esperienze e giuste motivazioni che gli permisero di creare un team di persone ad elevata performance. Eravamo un gruppo affiatato, solidale, stavamo bene insieme e riuscivamo pure a divertirci… finché i rapporti non si incrinarono in modo irreparabile.

Lo squillo improvviso del telefono mi strappò dai ricordi, riportandomi al presente. Staccai la fronte dal vetro e mi voltai a guardare il telefono, come se fosse un oggetto sconosciuto. Mi avvicinai alla scrivania e, prima di prendere il ricevitore, lessi sul display il numero di chi mi stava chiamando. Era la reception.

«Sì.» risposi con voce bassa, ma con tono fermo.

«Dottor Preite, ho in linea una chiamata per lei… è la Polizia.» aggiunse timidamente la receptionist.

Restai per qualche secondo senza riuscire a dire nulla, come paralizzato, guardando dubbioso la cornetta. La Polizia?

«Dottor Preite?» la voce della receptionist mi riportò alla realtà.

«Si… Si, la prendo.» le dissi.

La musichetta di attesa si inserì per qualche secondo, dopo di che risposi.

«Pronto, sono Stefano Preite.»

«Buongiorno, dottor Preite. Sono l’ispettore Desideri, del commissariato di piazza Venezia. Ci siamo conosciuti la sera del ritrovamento del cadavere di Bevilacqua.»

L’ispettore Desideri, l’uomo con la torcia elettrica!

«Si, ricordo… dica pure, ispettore.»

«La disturbo per chiederle se stasera ha la possibilità di fare un salto qui in commissariato. Avremmo qualche domanda da porle riguardo Bevilacqua.» La sua voce sembrava tranquilla.  

«Certo.» risposi dopo qualche istante di esitazione, curioso di ciò che desiderava chiedermi. «Avete scoperto qualcosa?» chiesi.

Notai che, prima di rispondere, l’ispettore prese un respiro.

«Preferiamo che ci raggiunga in commissariato… le spiegheremo tutto.»

«Capisco. Conto di uscire dall’ufficio per le sette e trenta.»

«È perfetto.» rispose Desideri, il quale tagliò corto «Allora ci vediamo stasera. La saluto.»

Restai in piedi davanti alla scrivania, con la cornetta del telefono ancora sull’orecchio. Dubbioso, mi interrogavo sul perché la Polizia mi aveva rintracciato e, soprattutto, su quello che aveva da chiedermi su Riccardo. La cosa mi mise una certa ansia. Tornai vicino alla finestra, mentre mille pensieri mi affollavano la mente. Guardai fuori, accorgendomi che era smesso di piovere e che un timido sole stava facendo capolino.

Improvvisamente qualcuno bussò alla porta e, subito dopo, aprì senza attendere il permesso. Era De Longhi il quale, entrando precipitosamente, disse «Stefano, sono arrivati quelli della Freeman. Ti stanno aspettando nella sala riunioni.»

Solo allora ricordai dell’incontro fissato due giorni prima con una grossa agenzia pubblicitaria, la quale doveva curare il lancio dell’edizione limitata di un prodotto. Negli ultimi anni, la CTI ricorreva spesso a questa tecnica di marketing, mettendo in commercio lo stesso prodotto in confezioni speciali, create per attirare l'attenzione dei potenziali compratori. Soprattutto giovani.

«Arrivo subito. Per favore, di’ loro di attendere qualche minuto.» dissi a De Longhi, il quale uscì senza richiudere la porta. Tornai alla scrivania e presi il mio blocco degli appunti. Feci un profondo respiro e mi diressi verso la sala riunioni.

 

 

 

A pomeriggio inoltrato, rientrai esausto nel mio ufficio, la giornata era stata pesante, come ormai di consueto. Il mio ufficio era essenziale: entrando dalla porta a vetro fumé, dov’era affissa una targhetta nera riportante il mio nome, si sfiorava un divano in pelle marrone giungendo di fronte a una scrivania con su un computer, un tappetino per il mouse con il logo della CTI e un paio di riviste di economia. Il resto dell'ufficio era composto da una libreria con decine di libri e altri documenti, e due sedie davanti alla scrivania. Ero da tempo giunto a conclusione che l’ufficio aveva un assoluto bisogno di un po’ di personalità. Pertanto, avevo cominciato a riempirlo di trofei sportivi, fotografie incorniciate, libri ispiratori e un quadro con una copertina di un album dei Pink Floyd.

Mi accomodai sulla poltroncina della scrivania e, dopo aver disattivato lo screen saver e digitato la password, aprii Outlook per una rapida occhiata alla posta elettronica… Niente di urgente. Guardai l’orologio, le lancette segnavano le sette passate. Spensi il computer e uscii dall'ufficio attraversando il lungo corridoio, dove ormai regnava il silenzio. Qualche secondo dopo, giunsi davanti all’ascensore, la cui spia rossa indicava che era occupato. Ero troppo stanco per prendere le scale, così attesi che si liberasse. In un istante i miei pensieri volarono alla telefonata di Desideri. Avremmo qualche domanda da porle riguardo Bevilacqua. Perché “avremmo” e non “ho”? Quanti sarebbero stati ad attendermi in commissariato? In quanti avrebbero ascoltato la mia deposizione? E che intendeva Desideri con “Qualche domanda?” Dieci, venti… forse cinquanta domande? Un interrogatorio! Si, volevano mettermi sotto torchio, volevano estorcermi una… confessione!

«Stefano!» la voce improvvisa di Elena mi fece sobbalzare. Immerso nei miei pensieri, non mi ero accorto che le porte dell'ascensore si erano aperte. «Cercavo te. Te ne stai andando?» mi chiese uscendo dalla cabina.

«Si, sto andando dalla Polizia.»

«Dalla Polizia? » mi chiese stupita

«Sono stato convocato dall’ispettore Desideri… vuole farmi qualche domanda su Riccardo.»

La sua espressione si contrasse.

«Cos’ha da chiederti?» mi domandò, mentre entrambi entravamo nell’ascensore.

«Non ne ho idea, non mi ha accennato niente.» replicai.

«Ti posso accompagnare?» mi chiese lei mentre premeva il pulsante del piano terra. Ci pensai qualche secondo, prima di annuire. In fondo non ci vedevo nulla di male.

Uscimmo dal palazzo della CTI, camminando a passo spedito. Provai a fermare un taxi, ma trovarne uno libero a quell’ora non era facile. Decidemmo così di proseguire a piedi, del resto Piazza Venezia non era tanto lontana. Imboccammo via Condotti, passando davanti alle scintillanti vetrine dei famosi nomi del lusso italiano. Il nome della famosa strada, derivava dalle condutture dell'Acqua Vergine che nel XVI secolo servivano la parte bassa del Campo Marzio.

«Ma non ti ha accennato proprio niente l’ispettore… come si chiama? » mi chiese Elena.

«Desideri.» risposi, mentre dribblavo due turisti giapponesi intenti a fotografare le insegne di Gucci.

«…mi ha solo riferito l’intensione di farmi qualche domanda su Riccardo. Nulla di più.»

«Non sarai mica tra i sospettati?» Mi chiese lei con un sorrisetto ironico, anche se la voce lasciava trasparire curiosità e preoccupazione allo stesso tempo. Le lanciai un’occhiata fulminea.

Venti minuti dopo, eravamo in Piazza Venezia di fronte al palazzo ottocentesco sede del commissariato di Polizia. Entrammo dal portone principale, trovandoci di fronte ad un grande gabbiotto di vetro per l’accettazione.

«Salve» dissi all’agente che sedeva all’interno «Ho un appuntamento con l’ispettore Desideri.»

Una voce gracchiante, di cui si faticava a capire le parole, mi rispose attraverso l’altoparlante posto sul vetro «Lei è il signor? »

«Stefano Preite.» risposi

«Attenda.»

Il militare consultò il monitor, dopodiché afferrò il telefono e digitò un numero sulla tastiera. Nel frattempo mi voltai a guardare Elena, la quale sembrava tesa. Quando si accorse che la stavo osservando, scrollò le spalle e fece un timido sorriso.

«Potete accomodarvi nella sala d’attesa al primo piano.» annunciò il poliziotto, mentre azionava il dispositivo che apriva la porta che conduceva negli uffici. Appena varcata la soglia, ci trovammo di fronte ad una stretta scalinata che portava al piano superiore. La salimmo lentamente, sbucando in un’ampia stanza dove ci accomodammo su una delle panche di legno poste ai lati, in attesa di essere ricevuti da Desideri.

Restammo lì seduti senza dire niente, con in testa mille pensieri diversi, mentre da un ufficio in fondo alla sala d’attesa, il martellante rumore del ticchettio di una macchina da scrivere, si confondeva con le voci di due uomini. Elena girò la testa verso di me e, quando fece per dirmi qualcosa, una voce ferma e perentoria la anticipò «Avanti, prego! ».

L’ispettore Desideri comparve da una porta vicina a quella da dove provenivano le voci dei due interlocutori. Appena rividi la sua faccia, ebbi un flashback che mi riportò improvvisamente indietro nel tempo, fino alla tragica sera del ritrovamento del corpo senza vita di Riccardo.

Francesco Desideri era un uomo sulla cinquantina, il corpo robusto e massiccio da ex paracadutista, un metro e settanta di altezza. I tratti del viso abbastanza pronunciati, con la fronte piatta tipica di chi è molto pratico e materialista e con due occhi neri, non troppo grandi, ma che originavano lo sguardo penetrante e fermo di una persona sicura e determinata. Mi alzai per entrare nel suo ufficio, mentre Elena restò seduta indecisa se seguirmi o meno. In fondo Desideri aveva convocato solo me. La guardai e, prima di riuscire a parlarle, intervenne Desideri. «Prego, venga anche lei…Signora? »

«…Elena Baldacci, sono una collega del dottor Preite.» rispose lei timidamente.

«La prego signora Baldacci, si accomodi.» disse l’ispettore abbozzando un sorriso della durata di un millisecondo.

L’ufficio dell’ispettore era molto semplice ma ben arredato, con una grande scrivania di legno scuro che occupava tutta la parete davanti alla porta. Vicine alla scrivania, due poltrone sulle quali l’ispettore ci invitò ad accomodarci. Lui sedette alla scrivania, appoggiandosi subito all’alto schienale della sua poltrona. Io e Elena ci accomodammo sulle due sedie dall’altra parte del tavolo. Guardandomi intorno, scorsi una fotografia di una donna che, supposi, doveva essere sua moglie. Sbottonai la giacca e accavallai le gambe, ero teso, mi sentivo impaurito e impaziente allo stesso tempo.

Desideri assunse il comando della discussione.

«Dottor Preite l’ho convocata qui in commissariato – e per questo la ringrazio per aver accettato – per chiedere la sua collaborazione nella soluzione dell’omicidio Bevilacqua… e, a questo punto, la chiedo anche a lei, signora Baldacci.»

Era garbato e, mentre parlava, i suoi occhi neri guadavano alternativamente me ed Elena.

«Ciò che vi sto chiedendo è semplicemente di raccontarmi il tipo di rapporto che avevate con Bevilacqua e, soprattutto, se ultimamente, prima della sua morte, avete notato qualcosa di strano nei suoi comportamenti o di insolito nei suoi atteggiamenti… Vi prego di non avere alcun timore o titubanza nel riferirmi qualsiasi particolare che possa apparirvi come una semplice sciocchezza. Credetemi, la maggior parte dei casi si risolve grazie a dettagli che sembrano futili e che invece non lo sono.»

Passarono lunghi secondi di silenzio, durante i quali rimanemmo tutti perfettamente immobili. Poi fui io il primo a parlare.

«È difficile parlare di una persona che non è più tra noi, con la quale si è condiviso un tratto di vita, dividendo momenti, esperienze, emozioni…» La mia voce uscì stentata, rauca. Così triste che suonò strana anche alle mie orecchie. Desideri annuì senza dire niente. Continuai, raccontandogli degli anni passati insieme a Riccardo, fatti di duro lavoro ed enormi soddisfazioni, nonché del rapporto mutato degli ultimi mesi, rapporto che si era fatto teso.

«Come mai? » chiese Desideri, curioso di conoscere la risposta.

«Non lo so.» risposi scuotendo il capo «Riccardo era spesso nervoso, intrattabile, si intestardiva in cose inutili. Il clima era diventato insopportabile, accompagnato da una crescente intolleranza reciproca, tanto che avevamo smesso di frequentarci… Poi, per fortuna cambiai ufficio, e il rapporto si interruppe per sempre.»

Desideri si sporse in avanti, appoggiandosi sui gomiti per riflettere. Nell’ufficio calò un silenzio assoluto. Sembrava di essere sospesi nel tempo. All’improvviso Elena, che fino a quel momento aveva assistito in silenzio, disse: «Scusi, ispettore…» Lui la guardò un po’ sorpreso.

«Noi…vorremmo sapere se avete scoperto qualcosa… se avete qualche sospetto, se siete sulle tracce di qualcuno…» aggiunse poi timidamente.

Desideri si appoggiò allo schienale della sua poltrona e, incrociando le braccia, ammise «Per ora non c’è alcun indiziato, anche se i miei uomini stanno setacciando tutta la zona dov’è stato commesso l’omicidio. In quell’area ci sono due campi rom e diverse baracche in cui vivono sbandati e immigrati giunti con le ultime ondate migratorie. È una specie di terra di nessuno, dove i balordi colpiscono rapidamente e tornano a scomparire altrettanto rapidamente nella boscaglia. Tutto porterebbe ad un omicidio a scopo di rapina.»

Guardammo l’ispettore rassegnati, con lo sguardo di chi riceve conferma di un sospetto che è ormai divenuto una certezza.

«Tuttavia, c’è qualcosa che non mi quadra.»

Appena pronunciò quelle parole, i nostri volti assunsero un'espressione stupefatta. L’ispettore aprì il cassetto della sua scrivania e, dopo aver dato una rapida occhiata all’interno, prese un pacchetto di sigarette. Ne tirò fuori una e, prima di accenderla, ci chiese se il fumo ci desse fastidio. Figuriamoci! Si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra, aprendola quel tanto che bastava per far uscire all’esterno la boccata di fumo che espirò.

«Perché rapinare un ciclista?»

Desideri attese qualche secondo prima di proseguire. La sua domanda, per quanto semplice, spiazzò entrambi. Infatti né io né Elena sapevamo cosa rispondere.

«Per qualche moneta? Dieci, venti euro al massimo? Per il cellulare o l’i-pod? …o per la bottiglia di Gatorade?» aggiunse poi con un leggero sarcasmo.

«E poi, perché colpire con tanta violenza? In un modo così brutale, da fracassare il cranio ad una persona? Non vi sembra esagerato per una stupida rapina?»

Rimanemmo a fissarci tutti quanti, senza riuscire a trovare uno straccio di risposta. Fu poi Elena a provare a rispondere. «Forse vedendo il magro bottino, l’aggressore ha scaricato tutta la sua rabbia su di lui, fino ad ammazzarlo.»

L’ispettore la guardò come se avesse detto la cosa più ovvia del mondo e un po' perplesso disse: «Signora Baldacci, qui in commissariato raccogliamo ogni giorno decine di denunce da parte di vittime di una rapina, e le assicuro che sono rare quelle che finiscono in modo tragico, se non per circostanze assai particolari. Circostanze che, in questo caso, sono sicuro di poter escludere.» Desideri spense la sigaretta a metà nel posacenere e, con voce sicura, aggiunse: «Secondo me la rapina è tutta una messa in scena. L’assassino conosceva bene i movimenti di Bevilacqua, gli ha studiati per giorni, se non per settimane. Sapeva che, in sella alla sua mountain bike, percorreva sempre lo stesso tragitto, la sera, dopo il lavoro. L’ha atteso nascosto nella vegetazione e, una volta giunto sul punto, gli è piombato addosso e l’ha ucciso a colpi di bastone. Poi ha simulato una rapina, per indirizzare in tal senso le indagini. Per me si tratta di una esecuzione in piena regola.»

«Un’esecuzione?» dissi meravigliato «Che significa un’esecuzione?»

«Un regolamento di conti. Che si tratti dei servizi segreti o di un marito geloso, questo ancora non lo sappiamo, ma di certo non si è trattato di un ladro così idiota da ammazzare un uomo per due euro.»

«Oh, mio Dio!» esclamai portandomi la mano sulla bocca. Mi girai verso Elena, la quale, mi guardò con occhi sgranati, mentre una lacrima le rigava la guancia.

A quel punto Desideri decise di lasciarci andare. «Bene, non vi rubo altro tempo. Vi ringrazio per la vostra disponibilità e, se avete altro da raccontarmi, contattatemi pure.» ci disse allungandoci due biglietti da visita. Sulla sua faccia riapparve l’espressione cordiale.

Gli stringemmo la mano e, ancora scossi, ci avvicinammo alla porta per uscire dal suo ufficio. Ad un tratto, come un tuono, la sua voce risuonò improvvisa nella stanza «Ah, dimenticavo!»

Io ed Elena ci voltammo di scatto, contemporaneamente.

«Vi ricorda qualcosa la parola “Santer”?» domandò Desideri, con voce che non pareva più la sua.

Esitai qualche secondo prima di rispondere «Santer?… no, non mi dice nulla…»

«E a lei signora? » chiese rivolgendosi ad Elena

«Mai sentita… Perché ce lo chiede, ispettore? » replicò lei.

«Non vi ho raccontato la cosa più interessante.» disse avvicinandosi alla sua scrivania.

«Dopo l’aggressione il ladro – chiamiamolo così – ha portato via i pochi oggetti che Bevilacqua aveva con sé, ma non il cellulare. Probabilmente perché lo teneva in un posto dove l’assassino non lo poteva vedere. Fatto sta che, dopo essere stato scaraventato per terra e ripetutamente colpito alla testa, il povero Bevilacqua non è morto subito.» appena udii quelle parole, sgranai gli occhi incredulo.

«Ancora agonizzante, ha trovato la forza di prendere il suo cellulare e di scrivere un sms. O meglio una parola: “Santer”. Ma poi non ce l’ha fatta ad inviarlo... è morto.»

Restammo impietriti davanti alla porta, mentre l’ispettore proseguiva col suo racconto.

«Ancora non sappiamo a chi era indirizzato quell’sms. Abbiamo analizzando i tabulati telefonici delle chiamate e degli sms in entrata e in uscita, e abbiamo individuato un sms ricevuto da Bevilacqua la mattina dell’omicidio, dal testo enigmatico: “il nome del test?”. Forse quella parola, “Santer”, era la risposta a quel sms. Ma è solo un’ipotesi. Il numero del mittente di quell’sms risulta disattivato.»

Poi l’ispettore, fissandomi cupamente, aggiunse: «Certo, quello che è veramente strano è che Bevilacqua, agonizzante, in fin di vita, si sia preoccupato di inviare un sms a qualcuno… o almeno ci abbia provato. Doveva trattarsi di una informazione assai importante, che la vittima voleva a tutti i costi fornire e in qualsiasi condizione.»

Rimanemmo tutti quanti in silenzio, mentre ognuno di noi pensava ad una possibile spiegazione. Desideri alzò le spalle, quindi, si avvicinò alla porta. «Ok, chiamatemi se avete bisogno.»

Uscimmo dal commissariato profondamente scossi. Percorremmo in silenzio una decina di metri, quando Elena disse con voce rotta:

«Tutto ciò è assurdo!»

«Già…» replicai ancora incredulo

«Chi può essere stato a volere tutto questo? »

«Non lo so… Riccardo deve aver combinato qualcosa di grosso per essere ucciso in quel modo.»

«E poi quell’sms, “il nome del test?”, a quale test si riferisce?» si domandò Elena.

Scossi la testa, non avevo la minima idea a quale misterioso test facesse riferimento il messaggio.

«Dai, adesso è meglio andarcene a casa. Vuoi un passaggio? » le chiesi.

«No prendo un taxi.»

«Sicura? » le chiesi sottovoce, guardandola negli occhi

«Si, non ti preoccupare. Grazie.»

Fermai un taxi e feci salire Elena.

«A domani.» le dissi

«A domani, Stefano.» e partì via.

Restai qualche secondo ad osservare l’auto allontanarsi. Il freddo si faceva sentire, infilai le mani nelle tasche e alzai il bavero della giacca. Tornando verso l’ufficio, non potevo fare a meno di pensare alla tesi avanzata dall’ispettore Desideri. Riccardo ammazzato non per un infame tentativo di rapina finita male, ma volontariamente per vendetta. Ma da chi? E perché? Eppure i dubbi che l’ispettore aveva sollevato sulla rapina finita male erano ragionevoli. E poi quel nome trovato sul cellulare di Riccardo: Santer. Perché, ancora agonizzante, si è tanto preoccupato di scrivere un sms con quel nome? E a chi era indirizzato il messaggio? Rischiavo un mal di testa. Una macchina passò a tutta velocità su via del Corso distraendomi dal mio rimuginare silenzioso. Diedi un’occhiata all’orologio: le 20.20. Mi affrettai lungo via Condotti per raggiungere il mio scooter. Giunsi in Piazza di Spagna, la quale si presentava bellissima nella sua naturale eleganza. Nonostante il brutto tempo, gruppi di turisti vi passeggiavano contenti, fotografandone ogni angolo. Restai qualche minuto ad osservare la scalinata di travertino che portava su, fino alla chiesa di Trinità dei Monti. Da qualche parte nella piazza, c’era un punto dal quale si poteva vedere l’obelisco Sallustiano inserirsi perfettamente tra i due campanili della chiesa. Ripresi a camminare nel freddo che si faceva più pungente, era uno degli inverni più freddi che ricordassi. Giunsi dinanzi alla sede della CTI e guardai l’austera facciata del palazzo. Il mio scooter era parcheggiato poco di fronte all’entrata. Recuperai il casco da sotto la sella, lo indossai, misi in moto e partii. Nella via verso casa, il mio pensiero tornava di continuo alle parole dell’ispettore.

perché rapinare un ciclista? …la rapina è tutta una messa in scena …per me si tratta di una esecuzione in piena regola.

Poco dopo, giunsi a casa e mi diressi in bagno, dove feci velocemente una doccia. Lo scoscio dell’acqua calda per un attimo mi fece dimenticare tutto quello che era successo... Già, per un attimo. Uscii dalla doccia, mi avvolsi in un asciugamano e andai in camera dove mi stesi sul letto con gli occhi chiusi. Provai a dormire... non ci riuscivo, ero inquieto, nervoso. Mi venne in mente la scena del cadavere riverso sulla pista ciclabile. Pensai al suo sguardo perso nel vuoto, a quegli occhi che forse erano rivolti al cellulare che aveva in mano, con quel messaggio che aveva scritto con le sue ultime forze. Santer. Chi diavolo era?

 

 

 

capitolo 3

 

PREDATORE

L’incessante cinguettio degli uccelli intenti a procurarsi il cibo fra gli alberi, mi svegliò dal mio sogno. Aprii gli occhi, con la luce del sole che filtrava attraverso la leggera tenda posta sulla finestra. Restai qualche secondo a osservarne le sinuose evoluzioni provocate da un vento che soffiava nervoso e che svelava il verde della campagna circostante. Il ticchettio delle lancette dell’orologio scandiva un ritmo ossessivo. Alzai lo sguardo sulla parete di fronte, dove era appeso un orologio a pendolo le cui lancette indicavano le sei passate. Posai la testa sul cuscino, ripensando al sogno che avevo appena fatto e che, da qualche settimana, si ripeteva quasi ogni notte. Un sogno surreale ma che, proprio per questo, assumeva una forte valenza simbolica.

 

Una spiaggia deserta, infinita, in un luogo che mai avevo visto… il mare brillante, calmo, lontanissimo… sulla sabbia anziché ombrelloni e sdraio, centinaia di letti di alluminio rosso che, posti disordinatamente uno accanto all’altro, come un lungo fiume si perdeva fino all’orizzonte… su uno di essi un uomo sedeva pensieroso, mentre osservava la sua immagine riflessa in uno specchietto che teneva in mano.

 

Girai la testa sul cuscino e vidi il suo volto addormentato, sereno, disteso. Era bellissima, col suo viso così tranquillo, quelle labbra, il suo profumo... Le scostai i capelli dal suo viso, dalle sue labbra dischiuse, mentre il suo respiro regolare faceva da sottofondo. Un istante dopo, le sue palpebre si alzarono leggermente e due straordinari occhi neri lentamente si schiusero, illuminandosi alla luce del mattino.

«Buongiorno, amore.» le sussurrai dolcemente.

Lei ricambiò con un leggero sorriso e, dopo aver posato la testa sul mio petto, chiese «Che ora è?»  

«È ancora presto… dormi ancora.»

Lei emise un mugolio stanco e, lentamente, avvicinò le sue morbide labbra alle mie tenendo gli occhi incollati ai miei. Sentii la sua bocca appoggiarsi sulla mia, mentre mi regalava un altro dei suoi splendidi baci. Ricambiai quel bacio poi si staccò e mi disse «Preparo la colazione.»

Si alzò dal letto e, mentre si infilava la leggera camicetta di seta, le osservai la schiena e il sedere perfetto. Uscì dalla camera dirigendosi in cucina, mentre io restai sdraiato a fissare il soffitto, immerso nei miei pensieri. Pensavo a quanto ero stato fortunato a trovare una persona bella e straordinaria come lei.

Un intenso profumo di caffè aleggiò nella stanza, mentre sentivo la caffettiera gorgogliare. Poco dopo, entrò lei con due tazzine di caffè e, sedendosi accanto a me, annunciò solenne: «La colazione è servita, signor Bevilacqua! »

Scoppiammo entrambi a ridere. Poi lei, guardandomi intensamente negli occhi, cominciò a sbottonarsi lentamente la camicetta, un bottone alla volta. La guardai, leggendo la sfida nel suo sorriso. Si tolse la camicetta, facendola cadere sul pavimento. Un secondo dopo, Sara fu sopra di me, seduta sulle mie gambe, che mi abbracciava, mi baciava, si dimenava per la passione che ci stava avvolgendo. Mentre la possedevo, chiusi gli occhi avvertendo la sensazione dell'odore del mare che si univa al suo profumo sensuale. Il suo gemito di piacere mi riportò alla piacevole realtà. Aprii gli occhi, guardando il suo seno che ballava una danza sensuale. Raggiungemmo insieme l'orgasmo, liberando tutta la tensione erotica che avevamo accumulato in quei lunghi minuti.

 

 

(continua)

 

 


© 2019 Alan Palma